Un'altra etimologia proposta si ricollega ad un'origine militare, legandosi al concetto di indutiae, "tregua". Tale etimologia fa risalire la parola otium all'antico indiano átati: "andare e venire" (come l'annus – da at-no – che corrisponde al cammino del sole nella cosmografia antica). L'otium esprimerebbe allora la libertà di muoversi liberamente in una situazione non di guerra, senza assedio: l'opposizione domi (in pace) – militiae (in guerra) equivarrebbe quindi a quella otium-negotium (opposizione effettivamente esistente all'epoca delle Guerre Puniche).
Prendiamo ora in considerazione l'opposizione otium-negotium. La prima parola è più antica della seconda. All'inizio c'era l'otium, la vita tranquilla ed esente da ogni tipo di impegno, i giorni beati, gli otia dia che Virgilio descrive nelle Georgiche (vv. 490-528); però – sempre secondo il racconto mitico virgiliano – dopo Saturno, re agricoltore e non solamente pastore, il Lazio conosce un lavoro forzato e tirannico, che si chiama negotium (legato perciò allo sviluppo dei bisogni e dei mestieri agricoli, successivi alla civiltà pastorale).
Quest'ultima parola è nata, per calco, dal greco ascholía (occupazione) con alfa privativo (alla quale, in latino, corrisponde il prefisso neg-), che si oppone a scholé (tempo libero, ozio), equivalente al latino otium. Ma, mentre i negotia, almeno fino all'epoca di Cicerone (I sec. a. C. ), hanno un valore incontestabile, rivestiti di un senso morale di "dovere", al contrario, nella letteratura greca, in Platone come nei testi degli epicurei, le ascholíai sono delle situazioni importune, fastidiose, e la scholé rappresenta invece un valore assoluto per l'umanità. Del resto, la coppia latina otium-negotium si avvicinerà gradatamente a quella greca scholé-ascholía, fino a corrispondervi perfettamente con Seneca e con le sue Lettere a Lucilio (siamo nel I secolo d. C. ).
Vediamo adesso come otium e negotium si configurano presso gli autori latini che maggiormente ne hanno fatto uso.
Cominciamo dalla commedia. La palliata (la commedia di ambientazione greca, da pallium, l'abito tipicamente greco che indossavano gli attori) introduce dei personaggi votati alla "vita oziosa", condizione primaria della galanteria agli occhi del filosofo Antistene. Gli eroi della palliata (scrocconi, giovani innamorati, schiavi furbi, vecchi commercianti e soldati) si scontrano perciò con l'antica morale romana, il mos maiorum: sfidano i valori del civis romanus e l'ideale matrimoniale (basato sulla famiglia). Nelle commedie di Plauto, l'otium si situa sempre in un rapporto di opposizione con le sue coordinate principali: la guerra e l'attività professionale.
Le attività, nella commedia plautina, vengono di solito indicate con le parole officium e negotium, mentre l'otium si oppone al negotium da un punto di vista puramente concreto, senza alcuna implicazione filosofica. Sia nella palliata che nella togata (la commedia di ambientazione romana – della quale ci restano soltanto frammenti – da toga, l'abito romano per eccellenza) l'equilibrio sociale è prima di tutto subordinato all'equilibrio tra otium e negotium.
Nel Phormio di Terenzio incontriamo una sottile parodia dell'otium "onesto", il quale prevedeva comunque una qualche forma di attività e non proprio il "far niente": il parasitus (lo scroccone) Formione vuole finire in fretta i suoi compiti per dedicarsi finalmente al suo otium preferito: … una mihi res etiam restat quae est conficiunda, otium ab senibus ad potandum ut habeam (vv. 831-32): "… mi resta da fare solo un'ultima cosa per questi vecchi e poi finalmente avrò tutto il mio tempo libero per andare a sbronzarmi".
E con Terenzio la sfera militare è definitivamente separata da quella del negotium: il bellum, la guerra, non è più considerato negotium (si ricordi quanto detto poco sopra). Infatti, il commediografo così scrive nel prologo degli Adelphoi: … quorum / opera in bello, in otio, in negotio / suo quisque tempore usust sine superbia (vv. 15-17), separando otio e negotio da bello. Il significato di otium e negotium all'epoca di Terenzio (egli fiorisce intorno al 160 a. C. ) viene spiegato da C. Dziatzko: "Dem Begriff bellum stehen otium und negotium gegenüber, beide setzen friedliche Zustände voraus, und zwar negotium in Bezug auf die öffentliche (z. B. richterliche oder verwaltende), otium auf die private Tätigkeit und Hilfeleistung der gedachten Männer".
Cicerone, nel De officiis (III, 1), oppone l'otium nobile e liberamente consentito al ritiro forzato, sorte dell'uomo di stato deluso. Riguardo ai concetti di otium e negotium, Cicerone, in molte sue opere, si rifà agli ideali del cosiddetto "circolo degli Scipioni" (riunito intorno a Scipione Emiliano; siamo nella seconda metà del II secolo a. C. ), promuovendoli a interpreti dei propri ideali di vita culturale e civile. Sono proprio gli Scipioni (ai quali si può ricondurre anche il poeta Lucilio, il primo aristocratico municipale che rifiuta i negotia e in genere l'attività pubblica) che hanno la coscienza di instaurare un genere di vita nuovo contro la tradizione ancestrale e contro il pregiudizio popolare. A contatto con la cultura greca si modifica profondamente il rapporto primitivo tra otium e negotium, modificandosi lo stesso contenuto dell'otium.
Quest'ultimo non è otiosum, bensì ispirato, una meditazione efficace: di tale concetto si fa portavoce Tuberone nel De re publica di Cicerone (di conseguenza, dice Tuberone, l'animo ha bisogno anche di rilassarsi: idea, questa, che il "circolo degli Scipioni" ha forse ripreso dalle teorie aristoteliche sulla finalità naturale del riposo). Nel De Oratore, Cicerone afferma che lo stato ideale di un individuo si basa su un'alternanza serena di otium e negotium. E il richiamo all'otium è anche di matrice culturale; come afferma Jean-Marie André, "la conscience romaine, dans le De Oratore, exige que l'otium appelle la culture, et non la culture l'otium: tel est l'arrangement que concluent, en cette sorte de pause avant de nouveaux combats, un esprit hellénisé et une âme romaine".
In Orazio, invece, il personaggio dell'Epodo II esalta un ideale di liberazione, suggerendo di rinunciare agli officia politici e all'ambizione: … beatus qui procul negotiis… (v. 1) ("… beato chi è lontano dalle occupazioni… "). Lo stesso poeta dà un'esaltazione autobiografica dell'otium nei versi finali della satira I, 6: pransus non avide, quantum interpellet inani / ventre diem durare, domesticus otior. haec est / vita solutorum misera ambitione gravique; / his me consolor victurum suavius ac si / quaestor avus pater atque meus patruusque fuisset (vv. 127-131) ("dopo aver mangiato non avidamente, quel tanto che basta per non restare a stomaco vuoto l'intera giornata, me ne sto a casa a far nulla.
E' questa la vita di chi è libero dall'ambizione che rende infelici e che opprime. Io mi consolo a pensare che, così, vivrò una vita più piacevole che se avessi avuto un questore per nonno e per padre e per zio"). Anche nelle Odi Orazio compie un'esaltazione dell'otium: nell'ode I, 1 incontriamo un inno al riposo mentre nell'ode 15 del quarto libro un'invocazione alla Pax-otium, contro l'ira "che forgia le spade e inimica le misere città".
Anche per Virgilio l'otium si ricollega ad un ideale di pace, la quale presuppone una forma di attività serena e felice. In Bucoliche, I, 6, il pastore Titiro si rivolge a Melibeo dicendo: O Meliboee, Deus nobis haec otia fecit ("O Melibeo, un dio ci ha donato questa pace": otium, in questo caso, si può benissimo tradurre "pace", che è la pace dei campi, ma anche l'assenza di guerra). Come osserva ancora André, "les otia représentent l'effort joyeux dans les campagnes pacifieés, liberées du miles impius par la Pax et soustraites à la trépidation frénétique des villes".
In un altro punto dei Tristia, Ovidio si presenta come il poeta votato all'otium per eccellenza: quique fugax rerum securaque in otia natus, / mollis et impatiens ante laboris eram, / ultima nunc patior… (II, 2, 9-11) ("Io che sfuggivo la vita indaffarata ed ero nato per un'esistenza tranquilla e senza impegni, io che prima ero delicato e incapace di sopportare la fatica, ora affronto situazioni estreme… "). L'otium, in questo passo ovidiano, si oppone al labor, la parola latina che darà origine all'italiano "lavoro" (quindi, si può affermare che, in un certo senso, qui labor va a coincidere con negotium).
E, successivamente, rievoca il suo passato alla corte augustea, quando rifiutava con decisione il negotium e il lavoro politico: maius erat nostris viribus illud onus. / nec patiens corpus, nec mens fuit apta labori, / sollicitaeque fugax ambitionis eram, / et petere Aoniae suadebant tuta sorores / otia, iudicio semper amata meo (IV, 10, 36-40) ("quell'occupazione [il senato] aveva un peso superiore alle mie forze. Non avevo un fisico resistente, né un animo adatto a tale fatica, e rifuggivo dalle tensioni della carriera politica. Le sorelle Aonie [le Muse] mi spingevano a cercare la tranquillità della vita privata, da me sempre preferita").
E, in Ovidio, anche le gioie dell'amore richiedono l'otium come un elemento vitale; così il poeta ha scritto nei Remedia amoris (vv. 141-144): quam platanus vino gaudet, quam populus unda / et quam limosa canna palustris humo, / tam Venus otia amat; qui finem quaeris amoris, / cedit amor rebus; res age: tutus eris ("Come il platano ama la vite, il pioppo l'acqua, le canne di palude la terra limacciosa, così Venere ama il tempo libero: tu che vuoi la fine di un amore datti al lavoro e sarai al sicuro: l'amore si ritira di fronte all'attività").
Da un poeta ad un filosofo: è Seneca, infatti, a riabilitare pienamente l'otium come stile di vita. Più specificatamente, è la sua opera De brevitate vitae ("Sulla brevità della vita"), che si preoccupa costantemente di conferire un senso positivo alle parole otiosi e otiosa vita. Qui, i capitoli XII, 2, XIII, 1 e XIV, 1 rappresentano uno sforzo metodico per riabilitare il tempo libero, i capitoli XII e XIII costituiscono un'accusa contro le definizioni volgari della vita otiosa, mentre l'incipit del XIV realizza una strenua difesa dell'otium filosofico: soli omnium otiosi sunt qui sapientiae vacant, soli vivunt ("soli fra tutti, sono gli 'oziosi' quelli che dedicano il tempo alla saggezza, solo essi vivono").
Ma, per Seneca, quello che comunemente viene considerato otium e tempo libero, non lo è. Non lo era allora e non lo è al giorno d'oggi. Proviamo a confrontare quanto dice Seneca in proposito nel De brevitate vitae, riguardo agli uomini del I secolo dopo Cristo, con quanto leggiamo nel Manifesto contro il lavoro, scritto dal Gruppo Krisis nel 1999.
Così scrive Seneca: Persequi singulos longum est, quorum aut latrunculi aut pila aut excoquendi in sole corporis cura consumpsere vitam. Non sunt otiosi, quorum voluptates multum negotii habent (XIII, 1) ("Enumerarli uno per uno sarebbe troppo lungo, passano la vita a giocare a scacchi o a palla, oppure a dedicarsi alla cura del sole. Non sono oziosi, i loro piaceri costano tanta fatica").
Così leggiamo nel Manifesto contro il lavoro: "Sobald es sich aus dem Fernsehsessel erhebt und aktiv wird, verwandelt sich jedes Tun sofort in ein arbeitsähnliches. Der Jogger ersetzt die Stechuhr durch die Stoppuhr, im chromblanken Fitnessstudio erlebt die Tretmühle ihre postmoderne Wiedergeburt und die Urlauber schrubben in ihrem Auto Kilometer herunter, als müssten sie die Jahresleitung eines Fernfahrers erbringen".
Nella Roma di Seneca come nell'età contemporanea, il "tempo libero", che esiste in virtù dei negotia, del lavoro, è lavoro esso stesso, poiché sempre legato alla logica costrittiva del negotium. Perciò, per Seneca, il vero "tempo libero" deve essere dedicato alla cura di se stessi. Come ha osservato Michel Foucault, l'applicazione a se stessi, in Seneca, raggiunge un'ampiezza notevole e viene denominata secondo svariate formule: secum morari, suum fieri, in se recedere ecc. , tutto per raggiungere una vacatio, una libertà per se stessi.
A tale proposito si può ricordare ancora il De brevitate vitae a VII, 5: Magni, mihi crede, et supra humanos errores eminentis viri est nihil ex suo tempore delibari sinere, et ideo eius vita longissima est, quia, quantumcumque patuit, totum ipsi vacavit ("Credimi, è proprio del grand'uomo che eleva se stesso sopra tutti gli errori umani non permettere che gli venga sottratto niente del suo tempo, e perciò la sua vita è lunghissima, qualunque sia stata la sua durata, poiché è stato sempre libero per se stesso").
Questa costante attenzione al ritorno a se stesso anticipa indubbiamente i futuri ideali espressi nel De Otio (databile al 62 d. C. , ai tempi del ritiro dalla vita politica), che si configura quasi come un'opera "esoterica" (nel senso di essere riservata a pochi eletti), dedicata alla formazione del perfetto saggio stoico, in pace con la morale civica e con la legge universale, per il quale l'otium si trasforma in una solitudine contemplativa.
Infine, per concludere questo rapido excursus attraverso gli autori latini, si può osservare come il succo principale dell'otium, la sua energia positiva sia riposta, forse, proprio in questo essere per se stessi, in questa cura rivolta all'interiorità e alla realtà dell'esistere in un determinato modo, al "fermarsi e riflettere", tanto più da valorizzare oggi, in una società che gioca completamente sulla velocità e sull'irrealtà. L'essere per se stessi andrebbe esteso a tutta una comunità globale a venire, in modo da poter costruire un otium reale contro un negotium irreale, contro la vecchia e malata società del negotium che si basa sulla democrazia delle bombe e sulle distruzioni di massa.